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La rivoluzione tecnologica, madre delle rivoluzioni
industriali, ha sì portato benefici, ma sempre dopo una fase di sconquassi.
Oggi siamo all’inizio di questa prima fase, in cui i vantaggi dell’hi-tech
vanno al capitale e all’élite del lavoro (esattamente come agli albori della
rivoluzione industriale), lasciando esclusi gli altri e creando nuove, e più
profonde, ineguaglianze. La quota di ricchezza in mano all’1 per cento degli
americani ricchi è salita dal 9 per cento degli anni Settanta al 22 per cento attuale. La rivoluzione tecnologica «classica», dopo le fabbriche e
gli operai, ha già drasticamente ridimensionato gli uffici e la classe media,
spina dorsale dell’Occidente nel XX secolo: centinaia di lavori impiegatizi,
maschili e femminili, dalle banche al commercio, sono stati cancellati.
Internet ha «disintermediato», cioè reso inutili molti compiti, come
organizzare un viaggio, cosa che molti di noi svolgono per conto proprio
online. Un fiume impetuoso ha attraversato il mondo privato, ma che cosa
accadrà nelle pubbliche amministrazioni con l’e-government applicato su vasta
scala? Finora abbiamo parlato di impieghi ripetitivi, di routine.
Ma oggi il digitale è a un nuovo passaggio rivoluzionario, potenzialmente in
grado di esercitare effetti dirompenti anche sui lavori a più alto contenuto
intellettuale grazie al supercomputing, alla biorobotica e all’ubiquità
dell’informazione digitale (i cosiddetti Big Data). I ricercatori di Oxford
ritengono che nei prossimi vent’anni, anche in molte professioni tecniche e legali,
quasi la metà dei professionisti potrebbe essere sostituita dalle tecnologie
digitali. Per dirla con Federico Butera, presidente della Fondazione Irso e
docente di organizzazione all’Università di Milano Bicocca, «in prospettiva
nessun lavoro può dirsi al riparo».
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